Rientra a casa tardi, la prima cosa che fa è togliersi le scarpe. Poi gli orecchini, poi il lungo vestito blu che ha indossato per un'altra occasione ufficiale, un'altra serata frivola. Si inietta le mani tra i capelli e poi si passa sul viso acqua e sapone, strofinando finché il trucco non scivola tutto nel lavandino e lei somiglia di nuovo a se stessa. Senza rivestirsi, si porta al centro dell'unica stanza che compone il suo enorme attico, pareti vetrate e soffitti alti sei metri. Stringe i denti e gli occhi le si bagnano perché, dopo anni, ancora non si è abituata alla sensazione di ossa anchilosate che le bucano la pelle al centro delle scapole e le scivolano fuori dal corpo. Sbatte le ali. A volte si chiede se sia davvero come andare in bicicletta. Se non lo facesse per anni, sarebbe ancora in grado di volare?
Vola. In una stanza enorme, rimbalza da parete a parete come una falena irrequieta catturata in una scatola. Nonostante abbia ammucchiato tutto il mobilio addosso alle pareti, non è mai abbastanza precisa da non far cadere niente. Rompere qualche vaso, rovesciare qualche sedia.
Ma lo fa lo stesso. Lo fa sempre finché non è esausta e piena di lividi, finché non ha sbattuto la testa contro il soffitto almeno dieci volte ed è stanca abbastanza da addormentarsi nonostante la frustrazione, l'insoddisfazione atavica che le macera nei polmoni. Un odio quieto, coltivato con costanza, nei confronti di tutto ciò che l'ha rinchiusa dentro una voliera.