giovedì 3 novembre 2016

Plaza Revoluciòn


Wes torna da lei con un bicchiere di Paloma guarnito con una fettina di lime. "Sai che non posso", dice lei gentilmente, prendendolo in mano. "Sarà il nostro piccolo segreto", lui risponde facendole un occhiolino e ricamandole una carezza sulle dita.

Lei lo beve tutto, ma è perché lo vuole o perché pensa di volerlo? Ingoia la diffidenza a sorsi, ma non la lascia trapelare. Si è vestita bene, con un abito corto ma non volgare, anche se si sente congelare e vorrebbe solo prendere il cappotto e chiudercisi dentro. I tacchi alti non le lasciano riposo alla caviglia, e non può fare a meno di chiedersi, a un certo punto, se il potere di Wes non sia in fondo una splendida metafora di tutta la sua vita passata a farsi dire come vestirsi, come sentirsi, come vivere. Sono ancora io, si dice, cin cin.

Parlano del motivo per cui lei è lì, per un po'. Lui rimane sul vago, oscilla il capo e il bicchiere, lasciandole capire che ha gli strumenti per aiutarla, senza però offrirgliene. Invece di aspettare il secondo drink e accettarlo passivamente, è lei ad alzarsi per prima e andare a preparare i cocktail: un Old Fashioned per lui (per dimostrargli che lo conosce), un altro Paloma per sé (per blandirlo con l'idea di conoscerla). Dopo il secondo drink, sorridere le viene più facile (ma è l'alcol o è lui?), bene, mette la canzone che suonavano la sera che lei andò a proporgli di essere il primo repubblicano in campagna elettorale a portare la bandiera dei diritti superumani, lui ride, bene. Sua madre una volta disse che questo mondo è una partita a scacchi, lei lo ricorda ancora. Torna a sedersi, ma questa volta sul divano accanto a lui. "Ti sono mancata?", gli sfiora le maniche rimboccate della camicia. "Da morire", mente lui, una moglie e due figlie ad aspettarlo a New York (lei sterile, loro adottate, nessun pericolo di trasmissione del gene X da padre in figlia, un segreto custodito al sicuro e rivelato a lei per sbaglio, per mancanza di controllo, anni prima).

"A cosa ti servono tutte queste informazioni? Stai organizzando una guerra?": lei ride e non risponde, invece lo prende in giro per avere anche solo pensato una cosa del genere. Getta il capo all'indietro ignorando le raccomandazioni di chi le ha detto che, con la terapia in corso, qualsiasi sostanza esterna dovrebbe essere evitata (alcol, gliel'hanno fatto capire bene). Ignora anche che non essersi sentita troppo male, questa settimana, è un segnale negativo: che abbia smesso di funzionare? Che non abbia mai funzionato? Wes ha la risata migliore che abbia mai sentito e se ne sta accorgendo solo ora? Ha denti bianchi e ogni tanto, quando dice qualcosa in spagnolo, la sua voce si fa più calda. Gli passa le dita tra i capelli neri. Sono io, sono ancora io, o lo sta facendo lui?

* * *

Con Inara si prende un attimo per sognare, uno solo. Georgetown diventerà Libertad e loro potranno andare a far colazione in Plaza de la Revoluciòn. Qualcuno scriverà canzoni su coloro che hanno liberato la Guyana, poi l'America Latina, poi il mondo. Quando esce dalla stanza di hotel di Wes, rimane nell'abitacolo della macchina spenta a prendere appunti prima che possa dimenticarsi tutto, odiandosi come al solito. Ma era lei? O era lui? Ore dopo, si risveglia nel proprio letto dopo aver sognato sua madre, così come la ricorda. Si sveglia in un altro corpo, chiusa nelle proprie ali.

* * *

Il giorno dopo si infila in tacchi alti (la caviglia, la dannata caviglia) e in un vestito d'oro che brilla anche sotto la luce più tenue. Si ferma in cima a una scalinata e respira i jazz dalle narici, se ne riempie i polmoni. Esamina la sala circostante dall'alto, come se ne fosse la regina. Ferma gli occhi dalle parti del bancone, il petto le si scalda. Sorride. Sono io. Ora sono io.